domenica 20 maggio 2018

LA SCELTA DI ANSELMO BRAMBILLA: STUDIARE LA STORIA PARTENDO DALLA VITA DEI PIÙ DEBOLI di Marco Bartesaghi









MISSAGLIA 1943 – 1945. Fatti e persone da non dimenticare (1)
È il titolo dell'ultimo libro che Anselmo Brambilla ha dedicato alla storia delle fasi finali del fascismo nel nostro territorio. Lo ha scritto con Ezio Giubilo, come lui ex sindacalista CGIL, presidente dell'ANPI di Missaglia, suo paese di residenza, e dei comuni del Casatese, membro del direttivo provinciale ANPI di Lecco.


Il libro si compone di quattro capitoli.

Il primo, a giudizio di Anselmo il più approfondito e importante perché affronta un fatto fino ad ora abbastanza sconosciuto, è dedicato alla presenza in paese di tre famiglie di ebrei: i Frankel, che deportati ad Auschwitz, furono uccisi all'arrivo al campo, i Meyerhof, di cui non si conosce la sorte dopo la partenza da Missaglia, e gli Stern, che riuscirono a riparare in Svizzera scampando allo sterminio (2).

Il secondo capitolo è dedicato alla guerra.

Nel terzo si affronta il tema della resistenza, con la ricostruzione della nascita di una formazione partigiana a Missaglia, dell'eccidio di Valaperta, del rastrellamento sul San Genesio  e dell'arresto e fucilazione del gerarca fascista Roberto Farinacci (3).

Nell'ultima parte sono trascritte testimonianze su quel periodo raccolte da Ezio Giubilo tra il 2015 e il 2016.

Questo lavoro si aggiunge ad altri che Anselmo, insieme ad Alberto Magni, ha dedicato al tema della Resistenza o, come lui preferisce dire, al periodo finale del fascismo. 







L'esordio, nel 2005, è stato con il libro PARTIGIANI TRA ADDA E BRIANZA. Antifascismo e Resistenza nel Meratese. Storia della 104a Brigata S.A.P. “Citterio” (4).

“Ritengo  - dice Anselmo – che questo libro sia stato per noi  il più importante e utile, perché ci ha consentito di iniziare e approfondire il tema resistenziale con altre  ricerche alcune delle quali svolte anche da altre persone”.











 Nel 2010, 65° anniversario della Liberazione, Anselmo e Alberto hanno  redatto la mappa:  PER NON DIMENTICARE. I luoghi della Resistenza nella Brianza Meratese (5), Una cartina che permette di  rintracciare i luoghi dove alcuni episodi si sono svolti:  Monasterolo,  Rovagnate, Valaperta, ecc. Recandosi in quei posti ci si può meglio rendere conto del contributo che questo territorio ha dato al movimento di Liberazione.

“Secondo alcuni ricercatori , nella fascia che va da  Airuno a Vimercate, la Resistenza è stata quasi inesistente, ma a nostro avviso non è proprio così. Ci sono stati  fatti molto importanti, anche se meno conosciuti di quelli che avvenivano in montagna. Lì si combatteva e si moriva , nessuno nega l'importanza, ma senza i rifornimenti che partivano dalla pianura, senza le azioni di sabotaggio, quelli in montagna avrebbero avuto la vita più dura e magari avrebbero resistito di meno”.

 
I luoghi di Verderio citati nella mappa: PER NON DIMENTICARE. Sopra il cippo che ricorda l'arresto della colonna tedesca da parte dei partigiani, il 28 aprile 1945. Sotto la lapide che ricorda la famiglia Milla, deportata e assassinata ad Auschwitz.




“Anche qui c'è stata  gente – continua Anselmo nel suo racconto - che ci ha lasciato la pelle. Come  Gaetano Casiraghi,  il “Galet”, di Osnago, quello che hanno impiccato per aver tagliato un pezzo di filo di una linea telefonica posata dai nazisti. Sarà stàa onca un po al’lari  quond  l'à taia ul fil , però l’eva mia ul casu de impicàl . L'hanno lasciato lì appeso tre giorni perché tutti vedessero cosa sarebbe successo a quelli che in un modo o nell’altro creavano problemi ai nazisti. Nel punto della strada dove venne impiccato adesso c'è un cippo che lo ricorda”.










Del 2013 è il libro COMANDANTE LAZZARINI. Da capo partigiano ad agente OSS in missione nel lecchese (6).

Giacinto Lazzarini (1912 – 1990) era figlio di un “ardito” della prima guerra mondiale che, con l'avvento del fascismo, era emigrato con la famiglia  in Canada. Sorpreso in questo paese dallo scoppio del secondo conflitto mondiale, Giacinto si arruolò nella Royal Canadian Air Force, dove fu  pilota e  paracadutista. Entrato a far parte del controspionaggio degli Alleati, fu prima inviato in Francia, dove collaborò con la resistenza  di quel paese, e poi in Italia. Qui diede vita, nel Varesotto, a una banda partigiana, la banda “Lazzarini”, in seguito sgominata dai tedeschi.

Successivamente fu paracadutato nella zona di Lecco, ai Piani Resinelli, dove entrò in contatto con la formazione partigiana “Gruppo Rocciatori della Grigna”, guidata dall'alpinista Riccardo Cassin. Compito di Lazzarini, fino alla Liberazione, fu quello di organizzare i lanci di rifornimento alle formazioni partigiane e, insieme al radiotelegrafista “Mummolo”, anch'egli paracadutato ai Resinelli, di mantenere i contatti informativi con le forze alleate.

“Il motivo principale che ci ha spinto a scrivere un libro su questo personaggio, è che grazie a lui fu impedito il bombardamento di Merate. Una storia particolare, la sua: Lazzarini era un monarchico che ha molto partecipato alla lotta partigiana. Per la sua grande amicizia con Luigi Zappa, sindaco di Merate dal 1965 al 1975, la moglie di Lazzarini, anche lei partigiana, ha donato  l'archivio del marito al comune di Merate, che ora lo conserva in una sala a lui dedicata nel Museo Civico locale. Questo  ha facilitato il nostro lavoro, poiché  abbiamo potuto studiare senza problemi i suoi documenti. Nel libro ci  siamo poi allargati facendo la panoramica della lotta partigiana nei territori di Varese e  Lecco”. 


Anselmo ha sempre dedicato un po’ di spazio  al tema  Resistenza  anche nei libri che ha scritto su alcuni paesi della Brianza, come quello su Calco, il primo, o  quello su Rovagnate. 
***

Anselmo Brambilla
È ora di dare inizio all'intervista vera e propria, fatta di domande e risposte, ad Anselmo Brambilla. Rinvio ancora per un po' la sua presentazione, salvo dire, anche se lo si è già capito, che è uno che si occupa di ricerca storica.

Marco (M) -  Come mai hai indirizzato il tuo interesse verso la storia della Resistenza nel nostro territorio e si può dire che questo sia il tuo settore privilegiato di ricerca?

Anselmo (A)    - L’ho già accennato prima. Mi sembrava che i fatti resistenziali di questa zona, che ci sono stati e hanno avuto anche una certa rilevanza, non venissero sufficientemente presi in considerazione, valorizzati. Allora mi è venuta voglia di chiarire un po’ questo panorama .

È lo stesso motivo che mi ha spinto a fare la ricerca sui lavoratori. Si dava per scontato che questa fosse stata una zona tranquilla senza lotte operaie. Invece, all'inizio del novecento, c’erano state le lotte delle filandiere: Verderio, Sabbione; Brivio , ecc , quelle dei  muratori di Missaglia e Casatenovo. Il loro sciopero per ottenere migliori condizioni di lavoro e aumenti salariali  durò circa  tre mesi  e, malgrado la loro determinazione, persero. C’è sempre stata anche qui la voglia di lottare per tentare di cambiare le cose, malgrado la cappa oscurantista della pressione religiosa  fosse più forte e soffocante che in altre parti della Lombardia. La Brianza orientale e la Bergamasca occidentale erano, a mio avviso, le zone più bigotte d’Italia.

La Resistenza è il mio settore privilegiato di ricerca? Sì, o meglio lo è stato, perché credo che ormai il filone si sia  esaurito.


(M) - Quali sono le fonti a cui avete attinto per ricostruire i fatti della resistenza del nostro territorio?
(A)-  Il Fondo Lazzarini, presso il museo civico di Merate, al quale abbiamo fatto riferimento per la ricerca su di lui. È stato un uomo che ha aiutato tutte le formazioni partigiane presenti sul territorio senza distinzione, come purtroppo succedeva, di orientamento politico. Per tutto il periodo della lotta partigiana nella distribuzione degli aiuti alleati ha mantenuto fede al motto: non mi interessa se il gatto è bianco o nero, l’importante è che prenda i topi. Dopo la guerra ha assunto invece posizioni decisamente anticomuniste: mi piacerebbe sapere come si è orientato nelle vicende della Repubblica.

Un’altra  fonte che abbiamo utilizzato, molto ricca di documentazione, è il fondo prefettura, primo e secondo versamento, dell’Archivio di Stato di Como.
Poi abbiamo esplorato gli Archivi di Stato di Varese e  Bergamo; l’Istituto di Storia Contemporanea Pier Amato Perretta di Como, che era nato come Istituto Comasco per la Storia del Movimento di Liberazione; il ricco archivio del Partito Comunista di Vimercate, che ora è conservato presso l’Inslmi (Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia ) di Sesto San Giovanni, che ha sede nell’ex stabilimento Breda. Infine i documenti privati ottenuti da famiglie di partigiani e di ex repubblichini.

 

(M) – Bisogna sapersi destreggiare fra varie fonti …
(A) -
La ricerca storica, a mio avviso, è un confronto continuo e mai esaustivo fra vari documenti, fra varie fonti. Sullo  stesso fatto puoi trovare diversi documenti,  magari uno in contrasto con l’altro. Intanto sai che il fatto è avvenuto, poi devi cercare di capire come è avvenuto, barcamenandoti fra le diverse versioni a volte contrastanti fra di loro.
 

Un fatto avvenuto: la rapina compiuta  da alcuni partigiani della 104° Brigata alla Cassa di Risparmio di Oggiono. Bottino 6 milioni di lire, che nel 1945 erano bei soldi. 

Motivo dichiarato: finanziare il movimento partigiano.

Conosciamo il nome degli autori, perché le Brigate Nere subito dopo la rapina li hanno inseguiti e alla fine li hanno presi. In un  primo tempo erano riusciti a scappare, liberandosi, nella zona di Montevecchia,  di alcuni sacchi di denaro, che gli inseguitori si erano fermati a raccogliere. Poi, con una certa leggerezza, avevano deciso di nascondersi parcheggiando macchina usata per la rapina in un cortile, non ricordo bene se a Robbiate o Paderno. In tal modo le Brigate Nere riuscirono a riconoscere l’auto e a risalire al proprietario. Così li beccano tutti e li portano in galera a Como. Fortunatamente per loro in carcere restano poco, solo il tempo di prendere qualche legnata,  perché alla fine di aprile c'è la Liberazione. 

Su questo fatto le versioni sono contrastanti: il comando della Brigata Partigiana locale di Oggiono  ha  sempre negato che la rapina avesse avuto lo scopo di finanziare i partigiani. Alcuni dicono che la cattura del gruppo fu dovuto alla soffiata di uno che voleva avere una parte del malloppo, ecc..  La refurtiva recuperata dalle BBNN fu riconsegnata alla banca, ma solo in parte: pare che alla fine della guerra qualcuno degli inseguiti ma, anche degli inseguitori, sia diventato molto ricco. Qualcosa gli sarà rimasto attaccato alle mani? Qualche dubbio o zona d’ombra rimane.


(M) – Le fonti orali, ovvero le testimonianze di chi ha vissuto gli avvenimenti: le hai utilizzate?
 (A) -
Sì, certo e sono molto importanti.  Però  si deve sempre confrontare il fatto che ti è stato raccontato con i documenti che lo riguardano direttamente o indirettamente  o che, almeno, si riferiscono al contesto in cui il fatto si è svolto. Se i documenti non ci sono, devi specificare che stai facendo riferimento ad una fonte orale, da prendere per  buona con molta prudenza.
Ho intervistato anche molti repubblichini. Mi hanno raccontato la loro storia, ad esempio, una comandante delle ausiliarie e  un tenente colonnello della Brigate Nere. Qualcuno degli intervistati  era irriducibile, diceva che ci voleva ancora Mussolini e cose di questo genere.
Altri invece mi dicevano:
“io mi sono arruolato nella Repubblica di Salò quando avevo 18 anni, sono venuto  su in un mondo in cui sentivo il fascista parlare, sentivo il prete parlare, poi tornavo a casa e facevo il contadino. Quando mi hanno parlato dell’amore verso la Patria tradita   cosa potevo scegliere? Certo sono stati bravi quelli che hanno avuto la capacità di scegliere bene. Però qualche attenuante ce l’avrò anch’io. Dopo ho capito di aver fatto una scelta sbagliata, ma dopo è facile per tutti capire se hai sbagliato”.
Era un modo di ragionare abbastanza condivisibile. Magari io non capisco la tua scelta però capisco anche che è difficile, in quelle condizioni, farne un’altra.

 

(M)  - Ricordo di aver letto che Nuto Revelli aveva detto che se il 26 luglio lo avessero picchiato o gli avessero sputato, forse si sarebbe trovato dalla parte “sbagliata”, dalla parte dei fascisti, quelli che sembravano essere le vittime del momento (7).
(A) - Sono stato anche all’Associazione Reduci della Repubblica di Salò, a Milano.  All’inizio, mi  hanno guardato un po’ male. Però gliel’ho detto subito: “ io sono uno con  idee di sinistra,  ma non sono venuto da voi per giudicarvi ,  sono qui solo e unicamente per cercare notizie”. 
 

(M) - Che idea ti sei fatto degli uomini e delle donne che hanno partecipato al movimento di Liberazione, se si può avere un’idea in generale?
(A) –
Per quanto riguarda la Brianza, cioè il mondo contadino, l’idea è che molti erano indifferenti rispetto al cambiamento che sarebbe avvenuto dopo, o, se non proprio indifferenti, inconsapevoli.
Parlare di libertà a persone che la libertà non sapevano neanche cosa fosse è come parlare del diritto di leggere a un analfabeta. Però tutti, o almeno la stragrande maggioranza , erano stufi dell’arroganza, della cattiveria, della brutalità del fascismo della Repubblica Sociale e dell’occupante tedesco.
Ti racconto un episodio avvenuto a Rovagnate: due persone stanno vangando in un campo, adiacente alla strada uno si mette a ridere. Due fascisti che in quel momento passano in  bicicletta, pensano stia ridendo di loro; lo prendono gli danno una manica di botte e lo mandano all’ospedale tutto sciancato.
A mio avviso però la consapevolezza della società che bisognava costruire dopo la cacciata dei nazi/fascisti era di pochi, praticamente solo di quelli che tiravano le fila del movimento partigiano.
 


Don Riccardo Corti, parroco di Giovenzana, frazione di Colle Brianza

Perché ti dico questo? Perché la resistenza nelle nostre zone era stata stimolata da persone (specialmente operai delle grandi fabbriche) che venivano da Milano, Monza, ecc , e avevano una consapevolezza più marcata di quella che trovavano qua. Qui ogni contadino era un po’ un mondo a sé, non c’era grande scambio di opinioni e quindi le idee erano piuttosto chiuse.
In fabbrica invece c’era maggior consapevolezza sul fatto che  il mondo desiderato non era quello esistente e quindi bisognava lottare per finirla con il fascismo per poter costruire la società desiderata. Società futura che non tutti vedevano allo stesso modo: alcuni avevano l’obiettivo di costruire una democrazia, altri volevano una società socialista come in Unione Sovietica. 
Tutti però erano convinti che con il fascismo bisognava finirla. Tutti, cominciando molte volte dai preti, che, anche se non sempre  in modo esplicito come il don Corti a Giovenzana o don Bolis, di Calolzio
(8), erano stufi del fascismo che era diventato estremamente violento e brutale. Sul cosa costruire dopo, molti non ci pensavano neanche
.


(M) - C’è qualche personaggio che ti ha particolarmente colpito positivamente?
(A) –
Non so, forse perché sono piuttosto restio a personalizzare, sono più portato a vedere le cose in modo collettivo.  La presenza nei distaccamenti dei vari paesi di Comandanti e Partigiani che   si comportarono valorosamente e pagarono con la vita le loro scelte era molto numerosa, però al momento non saprei dirti che una serie di nomi senza indicarne uno in particolare.


(M) - Qualcuno che per  come ha agito ti è particolarmente simpatico?
(A) -
Mi prendi un po’ in contropiede … apprezzo molte persone.  Una è  Renato Andreoli, il comandante della 104 Brigata Garibaldina “Citterio” , quello che con altri quattro ha preso Farinacci. Lui era una persona che mi  piaceva sentire parlare, perché non era di quelli che “mi o fa, mi so nà, l’ ó ciapà, ó fa chi , ó fa la”
Non dava l’impressione di voler dire  che era “lui” che aveva fatto, ma che “anche” lui aveva dato il suo contributo. Mi piaceva, mi era congeniale. Quando gli parlavi, adesso è morto, riuscivi a capire non solo il fatto d’armi, anche quello che ci stava dietro. Per lui  la resistenza era  stata importante perché aveva fatto  incontrare e parlare liberamente persone fra loro diverse, persone che non  dicevano sempre di sì. Questa secondo lui era stata la Resistenza.


(M) – E personaggi negativi, sempre in campo antifascista?
(A)  - È difficile citarne uno, ce ne sono stati tanti. Uno è stato un tale di Brivio … detto “il Rosso”. Dalle solite fonti che si definiscono anonime pare sia diventato partigiano per ammazzare ( o far ammazzare) un po’ di persone, con cui aveva dei conti in sospeso. Lo chiamavano il rosso, perché si diceva comunista, ma probabilmente non sapeva neanche cosa volesse dire essere comunista. A detta di quelli che me ne hanno parlato era un tipo estremamente pericoloso .

(M) - L’hai conosciuto?

(A)  - Sì, anni fa, era uno che tirava fuori le frasi perché le aveva sentite dire, ma senza ragionare su quello che stava dicendo. 

Persone negative ne ho conosciute parecchie, come quelli che avevano fatto tutto loro; quelli che in due  ne avevano circondati 26. Ma anche questo fa parte, purtroppo, del contesto storico di quel drammatico periodo.

Un altro da me conosciuto anni fa, di professione trasportatore, si era messo in combutta con tale “Nibal”, un fascista maresciallo delle Brigate Nere di Merate, quello che ha partecipato all’incendio della frazione di Vallaperta. “Nibal” pare rubasse gomme per autocarri e altri pezzi di ricambio ai fascisti, e le consegnasse  al suo socio da nascondere.

L’accordo era che, finita la guerra, il socio avrebbe nascosto “Nibal” finché non fosse passata la buriana, poi si sarebbero spartiti il malloppo. Invece dicono le voci, tante voci (se sùna la campanela va bé, ma se sùna ul campanùn …), finita la guerra il “socio” l’ha denunciato. I partigiani hanno preso Nibal e l'hanno giustiziato in modo atroce: legandolo dietro ad un autocarro  e trascinandolo sulla strada fino alla morte.


(M) – Le ombre nella storia della Resistenza sono innegabili. C’è chi su queste ombre ci ha marciato e ci marcia, chi le usa per denigrare tutto il movimento partigiano e chi trae la conclusione che fascismo e antifascismo siano uguali. Tu cosa ne pensi?

(A) -  Le zone d’ombra fanno parte di ogni azione umana, perché è l’uomo che è in ombra. Nei momenti tragici si accentuano le zone d’ombra in alcune persone  e quelle di luce in altre. Con  tutte gli spropositi che si possono raccontare della Resistenza, non si può negare che essa sia stata un momento di luce in un buio panorama di violenza e repressione nazi/fascista. Pensare che senza di essa l’Italia sarebbe stata migliore è  follia allo stato puro.

Denigrare la Resistenza è un esercizio molto facile. Come quando si legge il Libro Nero del Vaticano o quello del Comunismo: se vai a cercare la parte brutta la trovi sempre. Bisogna vedere però, nel contesto anche le parti belle, le parti generose. Quelli che hanno combattuto in montagna, rischiando e lasciandoci la pelle,e  quelli che qui in pianura la rischiavano  andando a fare un sabotaggio o producendo un manifesto contro i fascisti.

La Resistenza è stato un fatto importante, con zone di luce e con zone di ombra. Ma  c'è un dato di fatto fondamentale, che ci dovrebbe mettere tutti d’accordo: se fascisti e nazisti non fossero stati cacciati e non fosse  nata  la democrazia probabilmente questo blog non avrebbe avuto la possibilità di esistere. 


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***




Termina qui il lungo capitolo dedicato alle ricerche di Anselmo su fascismo e  Resistenza.
Adesso, finalmente, ve lo presento.
 

Anselmo Luigi Brambilla – “perché dai nonni invece  di ereditare soldi ho ereditato i nomi, Anselmo da quello paterno, Luigi dal nonno materno” – è nato a Olgiate Calco, allora i due comuni erano uniti, il 26 settembre 1938. Sposato da 54 anni,  ha tre figlie e cinque nipoti.
 

Il padre era  Giorgio, la mamma Carlotta Maria Lilleri.
“Lilleri è un cognome dell’ospedale, come si diceva una volta, perché mio nonno, era un trovatello che veniva dagli esposti di Milano. Pare che chi lo trascrisse fosse un toscano che tirò fuori un detto “senza lilleri non se lallera” (senza soldi non si fa niente). Allora decisero di mettergli il cognome Lilleri per portargli un po’ di fortuna”


(M) - Quindi il cognome di tua mamma vuol dire soldi?”
(A)  -
“G’avarà avú la furtuna, ma dané no”, diceva sempre mia mamma. Lei era di Cagliano, una frazione  di Campsirago;  il papà del Bosco, frazione di Santa Maria Hoè. Venivano “dalla montagna”, perché quelle colline allora erano considerate  montagna.

Eravamo una famiglia contadina piuttosto indigente, affittuari dei conti Gola, proprietari di vasti terreni. Io sono nato alla Brughiera (Olgiate Molgora), una collinosa frazione posta su un ripiano sopra Beolco, dove il conte, essendosi liberati dei terreni, aveva trasferito i miei. Praticamente come i servi della gleba. 








Eravamo sette fratelli: siamo rimasti due fratelli e una sorella. Ho fatto la quinta elementare, poi, siccome la mia famiglia era molto povera, ho dovuto cercare un posto di lavoro, come era normale per tutte le famiglie in quel periodo. Ho cominciato a lavorare a 13 anni: a quei tempi ai poveri non davano qualcosa per essere meno poveri, ma gli permettevano di andare a lavorare un anno prima del limite legale che era stabilito a 14 anni. Sono andato a lavorare in una fornace situata nei pressi  della frazione Bagaggera “
 

(M) –  Fornace del parco del Curone?
 (A) - Sì, ma non nella frazione Fornace, dove c’è l’osteria. In basso, dove c’è una grande costruzione che sembra un incannatoio,  una filanda, appena dopo la cascina Bagaggera . La fornace apparteneva alla famiglia ….. Se l’inferno esiste penso che loro siano lì; se non c’è alura la ghé ‘nada bé. Perché come comportamento verso i dipendenti erano dei cani, anche se così dicendo rischio di  offendere i cani.
 

(M) – Perché? erano tutte così le fornaci o solo loro  la gestivano così?
(A) - Il tempo era quello che era. Nessun rispetto per le persone: parolacce, pedate , schiaffoni ecc. Incominciando dal padrone che dava dell’asino a tutti.

(M) - Non solo ai ragazzini?

(A) - No, a tutti, anche agli uomini, che poi  si scaricavano sui giovani. Era un  brutto ambiente, nessuna  attenzione per la persona. A volte gli anziani ti rubavano anche quel poco mangiare che portavi da casa. Producevamo mattoni, forati, tegole, e altri manufatti per l’edilizia . Una macchina impastatrice di argilla, palta crea, attraverso una serie di stampi produceva tutto il materiale che a seconda delle necessità dell’industria edile veniva richiesto.

(M) - E poi infornavate?
(A) - Quelli che infornavano dovevano entrare nel forno, che non si spegneva mai, con la cariola sulla quale avevano posto i blocchi freschi di argilla stampati appena usciti dalla stampatrice: toglievano quelli cotti e  posizionavano gli altri. D’estate ancora  te la cavavi  ma d’inverno, con il passaggio fra l’esterno freddo e l’interno caldo,  erano polmoniti su polmoniti. Così si stava assenti e si veniva quasi sempre licenziati.

Non è una storia da medioevo, siamo nel dopoguerra, anni cinquanta . Ci sono stato un anno, poi i miei mi hanno tolto, perché c’è un limite a tutto. Anche gli uomini anziani venivano trattati male. E nessuno, o pochi reagivano, perché il bisogno di lavorare per mantenere la famiglia era notevole.

Una volta un operaio, esasperato dagli insulti, ha reagito picchiando il badile  in testa al padrone. Fortuna che glielo ha dato di piatto e  quello ha fatto qualche giorno di ospedale. Se glielo avesse dato di costa l'avrebbe diviso in due. Ovviamente l’operaio oltre ad essere licenziato è stato anche denunciato per tentato omicidio. Non so poi come sia  andata a finire. Per dirti l’esasperazione a cosa può portare.
Questo succedeva nella Brianza degli anni cinquanta. Una situazione che ho vissuto, non me l’hanno raccontata.
Dopo la traumatica esperienza della fornace ho trovato lavoro in una piccola officina di Merate, dove a pescià in del cú ho, più o meno, imparato  un lavoro.  

Dopo un certo tempo, questa volta per mia scelta, me ne sono andato in cerca di qualcosa di meglio in quanto a salario. Non sto qui a raccontarti tutto perché diventerebbe lunga la storia. Nel giro di una decina d’anni ho cambiato 10 o 11 posti di lavoro.

Anselmo, a destra, operaio presso la GBF di Bresso

(M) - Eri flessibile,  moderno …
(A) - Sì, la flessibilità l’ho inventata io. Visto che generalmente trovavo posti in piccole officine artigiane, con il padrone sempre presente  non mi trovavo quasi mai bene con nessuno. Inoltre madre natura mi aveva dotato di un carattere un po’ ribelle, non ero tanto facile da gestire.

(M) - Stiamo parlando degli anni cinquanta, giusto?

(A) - Dal 1951 al '64 - '65 come già detto ho cambiato vari posti di lavoro sempre aziende piccole con al massimo 8 o 10 dipendenti e sempre nel settore metalmeccanico. Allora ci chiamavano feré: costruivamo cancelli, balconate, serramenti ecc, cose di questo tipo, alcune anche belle, artistiche. Ad un certo momento mi sono anche appassionato a quello che producevo. Poi sono guarito dalla passione.

L’ultima piccola ditta in cui ho lavorato era in provincia di Bergamo, a Cisano Bergamasco. Produceva stampi per i mattoni e i forati. Erano lavorazioni di precisione. In questa ditta ho imparato a lavorare bene. Anche per costruire i cancelli dovevi lavorare bene, ma la precisione lì era diversa. Questa è stata l'ultima azienda piccola dove ho lavorato. La cicatrice che porto sulla guancia destra è stata un po’ la buona uscita.


(M) - Finita l’esperienza nelle piccole aziende ...?


(A) – Per un certo periodo non mi ricordo se tre o quattro  anni ho lavorato alla GBF di Bresso. Una fabbrica di 300 – 400 dipendenti che produceva presse a fusione. La fabbrica era interessante ma il viaggio per arrivarci faticoso. Scendevo dal treno alla stazione di Sesto San Giovanni  poi prendevo la bicicletta e mezzo insonnolito pedalavo verso la fabbrica.

Poi grazie alla raccomandazione di un compagno comunista -  sembra strano, de sòlet hin i prèt che racumòndèn , no? – sono entrato alla Breda Fucine di Sesto San Giovanni. La Breda era nata come una unica grande fabbrica, poi era stata divisa in sezioni, una delle quali era la Breda Fucine dove lavoravo. Si lavorava per la “pace”, quella eterna però: facevamo  canne dei cannoni,  ogive per missili, pezzi di carro armato, e altre amenità del genere.


 
Assemblea sindacale alla Breda Fucine

 
(M) - Per l’esportazione o per l’Italia?
(A) - Per ‘esportazione, soprattutto verso gli Stati Uniti, ma successivamente, con l’ampliamento del mercato,  anche verso altre destinazioni. Producevamo per la Otto Melara di La Spezia che era la capo commessa e che assemblava quanto era da noi prodotto. 
In seguito, grazie a  una lotta interna del Consiglio di Fabbrica, ci siamo indirizzati sul settore petrolifero:  attraverso l’ENI, lavoravamo per i paesi Arabi. La Breda Fucine faceva parte dell’EFIM (9), eravamo un’azienda a partecipazione statale, una di quelle che hanno prodotto un buco che non si è ancora riusciti a riempire.


(M) Quando è iniziata la tua attività sindacale?
(A) - Alla Breda Fucine la presenza sindacale era molto forte e attiva. Questo mi stimolò ad aderire al sindacato anche se in posizione molto critica e a presentarmi alle elezioni del Consiglio di Fabbrica, CDF (10), come rappresentante della manutenzione.  Eletto sono entrato a far parte del Consiglio di Fabbrica  dove ho trascorso  un certo periodo di intensa attività. Ma il lavoro sindacale di fabbrica non mi era molto congeniale.

 
Manifestazione degli operai della Breda Fucine. Anselmo è a destra con camicia a quadri e mani in tasca

Durante la permanenza nel CDF avevo conosciuto l’Associazione Italia – Nicaragua di Milano organizzata da  Luisa Morgantini della FIM-CISL e Angela Mazzini della FIOM-CGIL del sindacato provinciale di Milano. Con il via libera del CDF partecipai all’organizzazione di un progetto per l’installazione a Managua di una officina meccanica per la riparazione di veicoli pubblici: autobus, camion, ecc.
Per l'avviamento dell'officina era stato previsto l'invio dall'Italia di una squadra di tecnici, per un periodo di circa tre mesi. Feci parte del gruppo  e successivamente mi occupai di altri progetti che mi portarono in questo paese per altri tre mesi . Ciò mi consentì  di apprendere lo spagnolo, che mi darà modo di essere chiamato alla FIOM-CGIL Regionale della Lombardia per gestire alcuni progetti con il Cile.

Alla fine divenni, 
per la FIOM Lombardia, responsabile dell’ufficio internazionale.



In Nicaragua

(M) Che incarico avevi, di preciso?
(A) – Il mio lavoro si concentrava soprattutto sull'America Latina. Però, avendo l’incarico di responsabile dell’ufficio internazionale della FIOM regionale, ed essendo  in rapporto diretto con l’ufficio internazionale della FIOM nazionale, ogni tanto sostituivo il responsabile della FIOM nazionale quando questi aveva altri impegni. Sono stato in Russia, in Slovenia, in Bulgaria: praticamente in tutti i paesi dell'Est Europa.
In seguito mi sono occupato delle problematiche relative alle multinazionali, che in quel periodo si stavano espandendo nel mondo. Ad esempio della FIAT che andava ad impiantare una fabbrica a Belorizonte in Brasile o a Cordova in Argentina. Ci incontravamo con il sindacato brasiliano o argentino e con le rappresentanze sindacali interne per capire se potevamo creare un interesse di lotta  comune.

Partecipavo a Congressi e incontri ufficiali con altri paesi: Brasile, Cuba, Germania Est, Polonia, Russia e altri. Ho partecipato a  due Forum Sociali Mondiali di Porto Allegre in Brasile e altro. Alcune malelingue dicevano che il mio lavoro era da ritenersi  turismo sindacale …
Mi sono occupato della formazione di sindacalisti cileni.

 
Incontro a Bruxelles della Federazione Europea dei Metalmeccanici (FEM)

 

(M) - Durante il regime di Pinochet?

(A) - Sì, era una situazione abbastanza complicata. Qualcuno di noi quando è arrivato in Cile  è stato rimesso sull’aereo e rispedito a casa come persona non gradita.

In Argentina nel 1990 mi sono trovato in mezzo a un tentativo di golpe dei “carapintadas” contro il presidente Menem. Sono stato messo su un aereo e portato, per garantire la mia sicurezza, in  Patagonia. Mi hanno rassicurato con queste semplici parole: “quando tutto sarà finito potrai tornare”. Allegria
(11).


Santiago de Cile, quartiere La Victoria, 1989
 
(M) -  Per quanto tempo hai svolto questa attività?
(A) – Per circa 25 anni, almeno 18 dei quali come collaboratore della FIOM Regionale Lombardia. Nel periodo in questione l’Europa aveva fissato le quote nazionali della produzione di acciaio e quindi, alla Breda, sono cominciati i prepensionamenti. Dovevano riguardare i fonditori: così, in un attimo, siamo diventati quasi tutti fonditori: da 300 siamo passati a 1500. Se avevamo 50 anni di età potevamo andare in pensione anche con 10 anni di abbuono.

(M) - E quindi sei andato in pensione ...

(A) – Sì, però ho continuato a lavorare al sindacato, con le stesse mansioni, ma in qualità di  collaboratore. Sempre come responsabile dell’ufficio Internazionale.


***


(M) - Arrivato alla pensione hai cominciato a occuparti di storia …
(A) - Anche prima di andare in pensione. La storia mi è sempre piaciuta, ma quella della gente, non la grande storia. Ad esempio le mie ricerche sulla storia della Brianza, sono sempre partite dalle condizione di vita dei suoi abitanti, dei contadini, di quelli che  non contavano niente, i parìa. Alle Cinque Giornate di Milano non hanno partecipato i contadini: a loro non interessava chi fosse il padrone del campo, interessava chi ghé dàva de maià.

Raccoglievo anche le storie che mi raccontava mia mamma: lei era  semianalfabeta ma conosceva tante cose. Ho trascritto i detti, i proverbi, come si viveva, com'erano i rapporti  con i padroni. Da sempre. Arrivato alla pensione ho pensato che fosse giunto il momento di mettere insieme un po’ tutti questi frammenti.  Mi sono appassionato alla storia dei contadini e degli operai della Brianza alla fine della Grande Guerra: i fanti traditi, a cui avevano promesso  la terra e invece gli hanno dato solo quella sotto la quale  sono stati sepolti. Il biennio rosso, le lotte operaie …


(M) - Il fascismo ...

(A) - No, perché ne parlavano già tutti, però ho voluto andare a vedere come è finito: mi sono appassionato alla storia della caduta del fascismo e dell’avvento della Repubblica. Volevo capire come erano cambiate le condizioni di vita delle persone.. E anche dove non erano cambiate le condizioni di vita. I diritti, ad esempio, anche dopo la Liberazione si erano fermati ai cancelli delle fabbriche: la fabbrica non era né libera, né democratica. Fino al sessantotto. Solo allora si è cominciato a dire che i diritti conquistati con la resistenza non dovevano essere solo diritti dei cittadini,  ma anche dei lavoratori.
 

(M) -  Quali motivazioni ti hanno spinto a occupati di ricerca storica, solo la curiosità o c’è stato qualcosa d’altro?
(A) -  La curiosità è la base di tutto, senza quella non si fa niente. Però c'è dell'altro. Da piccolo, avrei voluto studiare e avevo avuto giudizi positivi da parte degli insegnanti delle elementari . Per la ricerca che ho fatto su di me, su mio padre e su mia madre, tra gli altri ho visitato gli archivi scolastici di molti paesi.

Ho trovato i giudizi che mi riguardano: un insegnante diceva che avevo una buona memoria e una buona intelligenza e  consigliava di farmi studiare. I miei però, per motivi che io in quel momento non capivo e che mi avevano fatto incazzare, non avevano potuto farmi continuare la scuola. Solo dopo ho realizzato che i genitori non si possono suicidare per farti studiare. Però la rabbia, che ora non rivolgo più a loro, mi è rimasta dentro, e penso che me ne libererò solo dopo morto.  Ecco qual è stata  la molla che mi ha fatto interessare alla storia: capire perché i contadini e la gente di un certo tipo non potevano fare quello che facevano gli altri.


(M) - Quindi la tua passione per lo studio è un recupero di qualcosa che non hai potuto fare quando sarebbe stato il suo tempo?

(A) - La prima volta che sono stato all'Archivio di Stato di Milano, mi hanno chiesto “ma lei che laurea ha?”  Non ho nessuna laurea, ho risposto, però è stata una martellata. O quel direttore di un piccola azienda dove lavoravo che mi diceva: “Voi sarete sempre dei numeri e non conterete mai niente …”.



(M) - Da cosa hai cominciato le tue ricerche?
(A) -  Il primo approccio è stato quello di conoscere la storia della mia famiglia, quindi ho cominciato ha costruire il mio albero genealogico. Volevo andare indietro per vedere se c’era qualcosa o qualcuno che aveva provocato la situazione difficile per la mia famiglia, la sua povertà, la sua incapacità di avere risorse sufficienti per vivere decentemente rispetto ai tempi in cui vivevano.

Visto che erano contadini affittuari e come tali si spostavano frequentemente ho dovuto visitare gli archivi di molte parrocchie della Brianza per ricostruire fino al 1689 la loro grama vita trovando solo poveracci che a malapena riuscivano a sopravvivere.

(M) - Dalla parte di tuo papà?

(A) - Sì, ma anche dalla parte della mamma, dove sono arrivato fino al mio bisnonno adottivo, perché mio nonno, come ti ho detto, era un trovatello. Nell’Archivio dell’Istituto di Milano che lo aveva, suo malgrado, ospitato, ho saputo che è rimasto fino a 6 anni in una famiglia che lo trattava male e quindi l’hanno mandato in un’altra famiglia.

So tutto di tutti: ho tutti i nomi, i nomi di chi hanno sposato, i figli che hanno avuto, quelli che sono morti in giovane età. Gente che non firmava o firmava con la croce e il prete che scriveva “la sposa ha firmato con la croce in quanto illetterata” e lì altra rabbia.

Quando sono morti due gemelli a una mia bisnonna,  che ha avuto 12 o 14 figli, il prete ha scritto: “morti per scarsa vitalità”. È  come se di uno che muore di fame si scrivesse “morto perché non ha ingerito il cibo”.  Per la mia nonna materna, morta a 37 anni lasciando mia mamma di tre anni, il prete di Rovagnate scriveva "morta per un colpo, non ha avuto modo di ricevere i Santi Sacramenti”: se l'è morta d'un cùlp, ma l'à fava a visàt prima?


(M) - Tu sorridi sorridi ma sei uno che si incazza …

(A) - Sorrido perché prendo tutto con ironia, ma certe cose mi fanno incazzare ancora.

(M) – Per questa ricerca sulla tua famiglia non è prevista una pubblicazione?

(A) - Non so, per adesso me la sono tenuta per me.  
Dopo quella della mia famiglia ho fatto una ricerca su quella di mia moglie: per lei sono andato indietro fino al 1630.

(M) - Anche lei di Calco?
(A) – No, loro venivano da Ravellino, Colle Brianza,  che un tempo si chiamava Tegnone. Siccome tutti prendevano in giro i suoi abitanti - “l’è ‘n tegnòn chèl lì: el màza i pùles e el te via la pel per fò i scarp” -  hanno chiesto di cambiare nome. Ci hanno messo 100 anni e alla fine  ci sono riusciti:Tegnone è diventato Ravellino.
 
Mia moglie è una Ripamonti, la sua era una famiglia di contadini benestanti. Erano intraprendenti, facevano i contadini ma anche altri lavori. Sono rimasti a Tegnone per trecento anni: possedevano le terre che lavoravano e quindi non si spostavano tanto facilmente. Poi, nel 1783, in 19 sono scesi “cùn la piena de la Molgura”  a Calco, perché da un loro parente morto avevano avuto un' ingente eredità.

Nella stessa linea genealogica di mia moglie dovrebbe trovarsi Giuseppe Ripamonti, sacerdote, dottore della Biblioteca Ambrosiana, storico e letterato. Alla sua cronaca  della peste del 1630 si è ispirato Alessandro Manzoni per i  Promessi Sposi. 

Giuseppe Ripamonti, dottore della Biblioteca Ambrosiana



(M) – Dopo esserti occupato della tua famiglia a cosa ti sei dedicato?
(A) – Il comune di Calco – il sindaco era Enrico Magni, leghista – e il Circolo Borghi mi hanno proposto di fare un libro sul paese: Calco, un paese che si racconta (12). È un lavoro che ho realizzato insieme a Claudio Ponzoni. Abbiamo ricostruito la storia delle due chiese , la parrocchiale di San Vigilio di Calco, e quella  di San Colombano e Gottardo di Arlate. 

Partendo dalle delibere del comune, ovviamente quelle più significative, abbiamo poi  ricostruito 100 anni di vita calchese. Al posto di un solo libro, alla fine  ne abbiamo fatti due, uno più piccolo, riassuntivo, e uno più corposo con anche le ricette, le tradizioni le poesie, le filastrocche, i detti , i diondul. Insomma tutto quanto attiene al paese  e alle zone limitrofe, perché non è che finito “ul  cùnfin de Calch de lò  parlen tudesc”.


(M)  È stato il tuo primo libro. Come ti sei organizzato? Qualcuno ti ha indirizzato?

(A) - Veramente io, su queste cose, tendo ad essere un po’ individualista. Voglio dire che quando ho un’idea la devo sviluppare come piace a me, giusta o sbagliata che sia. Quando  mi è stato proposto di fare il libro  avevo già un sacco di notizie annotate, non è che mi sono messo a cercarle apposta. Ho approfondito quelle che già avevo, potendo accedere liberamente all’archivio del comune e a quello della parrocchia,  e ho cercato notizie sui caduti in guerra, che ancora non avevo. Però la struttura del libro me la sono inventata, e visto che è stato considerato un bel lavoro vuol dire che è stata indovinata, magari per caso.
 

(M) Come vi siete divisi il lavoro, tu e Claudio Ponzoni?
(A) – Lui  è molto più orientato di me sui santi e sulle questioni religiose  quindi si è occupato della parte che riguarda i santi e le madonne.. Io invece della parte civile e di quella riguardante la struttura delle chiese, la storia della loro costruzione.








(M) - Hai collaborato anche a un libro del decanato di Brivio …
(A) -  Sì, Fides per millenium (13)  Ho curato il capitolo dedicato alla chiesa parrocchiale di San Vigilio, dove sono presentate anche la chiesetta di San Rocco Cereina e l'oratorio di Sant'Ambrogio in Ronco.

Su quest'ultimo, che di recente è stata acquistato, insieme a tutta la collina, da un nuovo proprietario, mi piacerebbe fare una pubblicazione. È stato ristrutturato nel 1513 perciò come minimo è del 1450, ma non ci sono documenti . Ho ricostruito la storia delle varie proprietà e cercato di capire perché c’è quella chiesetta, lì in un bosco.




(M) -  Altri tuoi lavori?
(A) – Ho collaborato al libro: “Per migliorare la vita dei lavoratori. La Camera del Lavoro di Lecco dalla sua fondazione al 1922” (14), scritto in occasione del centesimo anniversario della fondazione della Camera del Lavoro di Lecco e curato il libro: 50° Se cinquant'anni vi sembran pochi che il CAI di Calco ha pubblicato in occasione del cinquantesimo anniversario della  fondazione della sezione (15).

Ho raccolto un sacco di interviste, senza sapere cosa ne avrei potuto fare in seguito. Mi piaceva parlare con tutti quelli che a mio parere avevano da dirmi qualcosa di interessante:  partigiani, fascisti, militari internati,  donne che avevano lavorato in filanda. Avendo cominciato 40 anni fa, c’erano molte più persone che potevano testimoniare in prima persona. Io scrivevo tutto.

Ho intervistato, a Cisano Bergamasco, un reduce della Russia; poi un tale Mosca che era stato un informatore degli alleati. Ho intervistato l’autista del secondo camion dell’imboscata di Rovagnate. Il suo capitolo si potrebbe intitolare “Partigiano per caso” : si è trovato lì a guidare questo camion, ha rischiato la pelle poi se ne è tornato a casa e più nessuno si è ricordato di lui.

Ho  una raccolta di modi di dire brianzoli in senso lato, perché si parla sempre di un’area non ben definita. Per esempio quelli che usano la “O”, cioè la striscia che va da Rovagnate a Brivio; quelli che usano la “A” più verso il milanese. Quelli che dicono “el bagaj”, verso Lecco,  e quelli che dicono “ul bagaj”, più brianzolo; “Ul Carleto che’l g’ha un pó’ de la troia” e via. Ho raccolto una marea di questi detti, ma non ho trovato ancora qualcuno che finanzia la pubblicazione.


(M) - C’è il mio blog,  se vuoi: però bisogna fare anche una registrazione audio ...
(A) - Sì perché solo scritto non basta ed è anche difficile scriverlo perché è un po’ soggettivo,  invece se lo senti lo senti.
L'altro giorno mi è venuto in mente una frase che diceva mia madre quando non c’erano in giro i figli perché guai a far sentire certe cose alle orecchie vergini dei bambini, lei era molto religiosa:“i pret cunt i sò balet e i carabinier cui so  manet, tút ul mund i tegnen quièt” .

Sto anche trascrivendo le note dei viaggi che ho fatto: in Polonia quando sono andato a incontrare Lech Walesa.;  in Germania dell’est, a partecipare a dei corsi dove più che a fare il sindacalista ti insegnavano i metodi più adatti per abbattere il capitalismo.

Una volta in Svizzera, dove, insieme ad altri, ero andato a manifestare a favore della Palestina, mi hanno arrestato. 


Ho visitato il campo di Buchenwald, che è stato uno dei più duri campi nazisti: nessuno dice però che è anche stato per molti anni anche un campo di concentramento per i dissidenti della Germania dell’est. Ci andavano ad esempio i comunisti troppo ortodossi, quelli poco ortodossi e i comunisti e basta: era sufficiente  non andare bene a quelli che dirigevano  ed eri considerato un dissidente.

Un giorno visitando una fabbrica in Unione Sovietica ci hanno mostrato  il ritratto di uno considerato “la guida” di tutta la fabbrica. Due giorni dopo torniamo nella stessa fabbrica e il ritratto è cambiato: “la guida” era caduta in disgrazia ed era subito stata sostituita da un'altra, sempre bravissima ovviamente. Ho chiesto informazioni al nostro accompagnatore che mi ha detto: “compagno ... lasa perd…”


(M) – In molti dei tuoi lavori hai collaborato con altre persone. Me ne vuoi parlare?

(A) -  Diciamo che collaboro con chiunque ritenga che il mio contributo sia  utile. Ti ho  già detto di Giubilo, di Ponzoni e anche di Magni. Con quest'ultimo il rapporto di collaborazione è stato più assiduo e frequente, avendo riguardato tutto il lavoro svolto sul tema della Resistenza. Io e lui, che è un insegnante e abita a Olgiate Molgora, abbiamo un modo abbastanza simile di fare ricerca e, un modo di scrivere piuttosto diverso. Però riusciamo sempre a trovare la sintesi. Con Alberto mi trovo molto bene a fare tutto. Quando ce lo chiedono andiamo anche nelle scuole a parlare della Resistenza (16).

 
Anselmo Brambilla e Alberto Magni . Foto tratta da merateonline

 

(M) – Ora che, come mi hai detto, il tema della Resistenza per voi si può dire chiuso, cesserete anche la collaborazione?

(A) – No, stiamo già facendo una ricerca sulla prima guerra mondiale, legata alle condizioni sociali dei militari che l'hanno combattuta. Riguarda una vasta zona, comprendente una decina di comuni del Meratese. Vogliamo arrivare a una valutazione delle condizioni psicofisiche degli arruolati, avendo come fonte le visite di leva. Per questo abbiamo visto e copiato le liste di leva dei comuni prescelti.

Gran parte dei soldati avevano i denti guasti, erano più piccoli di un metro e sessanta, avevano difetti fisici e un torace più piccolo della mia gamba. Chissà, magari riusciamo ad avere un quadro dell’amor di patria che i nostri contadini dovevano avere per andare ad ammazzare altri contadini dell'Austria, dell’Ungheria, della Serbia o a farsi ammazzare. 


(M) - Altre idee che per ora sono solo in testa?

(A) - Un'altra ‘idea riguarda gli ebrei mandati al confino in diversi paesi della provincia di Como.  Il confino sembra una cosa da poco, ma non lo era. I confinati non potevano muoversi dal paese, se non con il permesso della questura di Como,  non potevano lavorare, non potevano socializzare , dovevano vivere con i propri soldi, almeno con quelli che il governo non gli sequestrava.  Abbiamo già un po’ di notizie, ora dobbiamo cercare la documentazione (17).


NOTE
(1) Anselmo Luigi Brambilla, Ezio Giubilo, Missaglia 1943 – 1945. Fatti e persone da non dimenticare, Missaglia, 2017


(2) Questa vicenda è raccontata da Anselmo e Alberto anche su questo blog:
http://bartesaghiverderiostoria.blogspot.it/2016/01/ebrei-internati-missaglia-di-anselmo.html

(3) Il 3 gennaio 1945, quattro partigiani vengono fucilati, a Vallaperta frazione di Casatenovo, dalle Brigate Nere di Missaglia e Merate. Sono Natale Beretta (25 anni) e Gabriele Colombo (23 anni) di Arcore, Mario Villa di Biassono e Nazzaro Vitali di Bellano. È un'azione di rappresaglia per la morte di un milite della G.N.R, tale Chiarelli mandato a Valaperta a indagare su un renitente alla leva e lì ucciso in circostanze non molto chiare.
 

Sul monte San Genesio il rastrellamento, ad opera di circa 350 SS tedesche aiutate da fascisti, avviene il 30 settembre 1943. Risultato dell'operazione, che durò 2 giorni, fu di tre partigiani morti, 2 feriti e una trentina fatti prigionieri.
 

Roberto Farinacci, gerarca fascista di Cremona, fu arrestato a Beverate  il 26 aprile 1945 da un comando partigiano. Dopo un sommario processo verrà fucilato a Vimercate la sera del 28 aprile.

(4) Anselmo Luigi Brambilla, Alberto Magni, PARTIGIANI TRA ADDA E BRIANZA. Antifascismo e Resistenza nel Meratese. Storia della 104a Brigata S.A.P. “Citterio”, Oggiono,2005.


(5) Calco, Olgiate Molgora, Brivio,Comuni della Valletta (a cura di), Per non dimenticare. I Luoghi della Resistenza nella Brianza Meratese, 2010.
Puoi trovare questa opera su questo blog al seguente indirizzo: http://bartesaghiverderiostoria.blogspot.it/2010/08/per-non-dimenticare-mappa-della-memoria.html


(6) Anselmo Brambilla, Alberto Magni, COMANDANTE LAZZARINI. Da capo partigiano ad agente OSS in missione nel lecchese, Oggiono, 2013

.
(7) Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, pag. 34, Torino, 1991. 


(8) Don Riccardo Corti, settantenne parroco di Giovenzana, frazione di Colle Brianza,
si assunse la responsabilità di aver dato asilo ai prigionieri arrestati dai nazisti, per salvare il suo paese dalla rappresaglia,. Per questo fu deportato a Mauthausen. Arrestato l'11 ottobre 1943, fu liberato dopo 17 mesi grazie all'intercessione del cardinale Schuster. 

Don Achille Bolis, parroco di Calolziocorte, fu arrestato il 21 febbraio 1945 insieme al suo coadiutore, don Tommaso Rota, con l'accusa di aver dato aiuto ai ribelli. Morì  nel carcere di San Vittore, la notte dopo essere stato interrogato e torturato all'Albergo Regina di Milano, .

(9) Ente partecipazione e finanziamento industrie manifatturiere (acronimo EFIM) è stata una finanziaria del sistema delle partecipazioni statali. Nato nel 1962 come Ente autonomo di gestione per la partecipazione del Fondo di finanziamento dell'industria meccanica (FIM), cambiò nome nel 1967. L'EFIM, dopo aver accumulato debiti per 18.000 miliardi di lire fu messo in liquidazione nel 1992. Nota redatta da Anselmo Brambilla.


(10) Organismo rappresentativo dei lavoratori all'interno di un'azienda. Il consiglio di fabbrica ( CDF) viene eletto da tutti i lavoratori siano o no iscritti al sindacato. Si occupa di tutto quanto attiene alla gestione dei rapporti sindacali con la direzione. Nota redatta da Anselmo Brambilla.


(11)  Un gruppo di carristi tenta e fallisce  un colpo di stato contro Menem. Erano definiti "carapintada" per il fatto che si erano pitturati la faccia . La battaglia, che ha opposto militari argentini ad altri militari argentini, ha lasciato sul terreno una trentina di morti. Nota redatta da Anselmo Brambilla.


(12)  Anselmo  Brambilla, Claudio Ponzoni, Calco un paese che si racconta, Oggiono, 2004


(13)  Anselmo Brambilla, Parrocchia di San Vigilio in Calco, in Fides per millenium, Oggiono, 2000.


(14)  Autori vari, Per migliorare la vita dei lavoratori. La Camera del Lavoro di Lecco dalla sua fondazione al 1922,  Lecco 2001


(15)  Anselmo Luigi Brambilla, Se cinquant'anni vi sembran pochi, Terno d'Isola, 2014


(16)  Su Alberto Magni: http://bartesaghiverderiostoria.blogspot.it/2010/04/alberto-magni.html


(17) Anselmo Brambilla ha collaborato un gran numero di volte con questo blog. Potete leggere i suoi contributi cliccando su questo indirizzo ( o sull'etichetta  a lui intestata):
http://bartesaghiverderiostoria.blogspot.it/search/label/Anselmo%20Brambilla


Marco Bartesaghi, 17 maggio 2018


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