lunedì 6 marzo 2017

LE CONFERENZE SCIENTIFICHE A VERDERIO

BIBLIOTECA DI VERDERIO

LA SCIENZA NEL 3° MILLENNIO
L’Uomo e l’Ambiente
Ciclo di conferenze primavera 2017



 Venerdì 31 marzo
Ore 21.00
Sala Civica di Villa Gallavresi
CONOSCERE I PROPRI GENI PUÒ CAMBIARE LA NOSTRA VITA?
Faustina LALATTA, Ospedale Maggiore Policlinico di Milano
Venerdì 12 maggio, VACCINI E VACCINAZIONI: RIFLESSIONI PER UNA SCELTA CONSAPEVOLE, Sandro ZANETTI, Università degli Studi di Milano
 
Venerdì 26 maggio, ENNIO MORLOTTI: ARTISTA, RICERCATORE, POETA DELLA PITTURA MATERICA, NATO E VISSUTO NEL NOSTRO TERRITORIO,Patrizia CONSONNI, Artista e Arte Terapeuta a Indirizzo Antroposofico
Ciclo di conferenze promosso dalla Biblioteca Comunale di Verderio, grazie alla collaborazione scientifica gratuita dei professori Gabriella CONSONNI e Giuseppe GAVAZZI, dell’Università degli Studi di Milano. Per eventuali variazioni del programma siete cortesemente invitati a consultare il sito del comune di Verderio: 
http://www.comune.verderio.lc.it/verderio/hh/index.php

domenica 5 marzo 2017

ANERIO E GIGLIOLA, UNA FAMIGLIA NATA IN CAMPO PROFUGHI di Roberto Muzio e Marco Bartesaghi

Per alcuni anni Giuseppina Gigliola Uicich e il marito Anerio Villani hanno vissuto da italiani profughi in Italia. Lei, classe 1937, proveniva da Fiume, che dal 10 febbraio 1947 era entrata a far parte della Jugoslavia. Lui, triestino, era partito dalla sua città natale insieme alla mamma, nel 1945, quando già le truppe titine avevano lasciato la città in mano a quelle anglo-americane. La sua vicenda è quindi abbastanza particolare.
Per farmi raccontare la loro storia li incontro nella casa di Merate dove abitano. Con me c’è Roberto Muzio, l’amico che me li ha fatti conoscere. Sono le sei di sera e, solo a fatica, riusciremo a smettere di parlare verso le otto. Ho una lista di domande, per cercare di seguire un certo ordine , ma alla fine non la uso. Il racconto si fa strada da solo e le domande, mie e di Roberto, sorgono solo quando se ne sente la necessità.
 

Attacco io: “So di un carabiniere  che, in servizio in Istria da prima della guerra, aveva sposato una donna del posto e avuto dei figli. Dopo l’occupazione da parte dei partigiani di Tito, intuendo il pericolo, con tutta la famiglia, compresi i suoceri, era tornato al suo paese d’origine, Verderio”.

Anerio (A) Uno dei flash di quei tempi che ho nella  mente  è quello dei tre carabinieri che i titini hanno ammazzato a Piedimonte di Taiano, nell’Istria dell’interno. Mi ricordo che se ne parlava, dei tre carabinieri di Piedimonte, me ne ricordo anche se allora ero un bambino.
Io sono di Trieste, quindi formalmente non sono un profugo dall’Istria. In città la guerra è finita il 12 giugno 1945, quando sono andati via i titini e sono arrivati, con le navi, gli angloamericani. In agosto io e mia mamma siamo partiti.
 

Domanda (D) Solo lei e sua mamma?

(A) Sì, ero orfano: mio padre, Gianni Villani, era morto nel 1938, quando avevo cinque mesi. Mia madre aveva voluto andar via da Trieste anche per questo fatto, per le traversie che aveva avuto; forse aveva  anche paura, ma non so bene di  cosa. In più aveva anche un certo spirito d’avventura.
 





Gianni Villani, papà di Anerio, prima del suo trasferimento a Trieste. Nella foto sopra è portiere della squadra di calcio. In quella sotto, scattata a La Spezia nel 1926, è il primo da destra.

TRIESTE DALL'OCCUPAZIONE TITINA ALL'ARRIVO DEGLI AMERICANI


(D) Siete stati spinti ad andar via o è stata una vostra libera scelta?
 

(A) È stata una scelta della mamma, anche perché “il brutto” ormai era passato: i titini se n'erano  andati ed erano arrivati gli angloamericani. Il periodo, durato 43 giorni , in cui gli uomini di Tito sono stati in città, penso sia stato il peggiore per Trieste.

(D) Cosa è successo in quei 43 giorni?
 

(A) Cosa è successo? Nel comune di Trieste ci sono due foibe: la foiba di Basovizza, un sobborgo di Trieste, quella maggiore, la più conosciuta, e la foiba di Opicina, sempre sul Carso perché è sul Carso che queste cose si trovano. Queste due foibe furono utilizzate per far sparire  persone.
 

(D) Chi è finito nelle due foibe di Trieste?
 

(A) Quelli che erano considerati nemici … niente di ufficiale. Ci andavano quelli di cui qualcuno aveva magari detto: “Quello lì lo conosco, era un fascista …”. Bastava questo, erano vendette personali.
 

(D) Ci sono state, fra le vittime delle foibe, persone conosciute dalla vostra famiglia?
 

(A) Sì, c’erano persone che la mia famiglia conosceva sia fra gli infoibati, sia fra gli ebrei scomparsi nella Risiera. Perché i titini hanno lasciato in ricordo le foibe, mentre i tedeschi avevano lasciato l’eredità della Risiera di San Sabba, quella che tanti chiamano il campo di sterminio italiano, ma che non è giusto chiamarlo così, perché era un campo  tedesco.
 

(D) Più giusto dire “campo di sterminio in Italia”?
 

(A) No, perché dopo l’8 settembre 1943, Trieste non faceva più parte dell'Italia, bensì della Germania.

(D) Lei era un bambino, quanti anni aveva?
 

(A) Sono nato nel 1938, nel ’45 avevo 7 anni.


Anerio con la mamma Vida, a Trieste in piazza Unità, e con il nonno Giuseppe a Muggia.





(D) Perciò di questi fatti ha anche ricordi propri, non solo per aver ascoltato i racconti dei grandi?
 

(A) I ricordi dei bambini sono come dei flash. Mi ricordo di due serate: una  “rossa” e una “bianca”. La serata rossa è quella del 30 aprile 1945. La città era ancora sotto coprifuoco. Tramontato il sole, tutto era spento. Poi, lungo il ciglio del Carso, che sovrasta Trieste, si è visto un bagliore rosso. Erano i fuochi degli accampamenti dei titini. Il giorno dopo, il primo maggio, sono calati e si sono impossessati di Trieste.
 

(D) Ce lo si aspettava?
 

(A) Sì e no. Sa, la guerra, soprattutto negli ultimi tempi, era di movimento: truppe che si spostavano, che andavano, che venivano. Però si temeva che sarebbe successo.
 

(D) Quindi il primo maggio entrano i titini e i tedeschi se ne vanno …
 

(A) Se ne vanno dopo qualche scaramuccia e qualche tentativo di resistenza qua e là  … Lo stesso giorno da Monfalcone arrivano le prime camionette dell’ottava armata inglese. Erano  avanguardie neozelandesi, arrivano con le loro jeep fino a Barcola.
 

(D) Barcola?
 

(A) E’ un rione di Trieste, dalla parte di Monfalcone, sul mare. Quel giorno era stata una corsa verso Trieste: degli inglesi, che avevano risalito la costa adriatica, e dei titini, che erano scesi dall’interno dell’Istria. Sono arrivati insieme, soltanto che i neozelandesi sono arrivati con due o tre ieep, solo una punta di diamante, mentre i titini con i carri armati. A questo punto i neozelandesi hanno fatto marcia indietro, sono tornati a Monfalcone e lì hanno tirato il confine del territorio libero di Trieste. Le truppe di Tito invece sono entrate in città e sono rimaste fino al 12  giugno. L'hanno lasciata solo grazie alle pressioni di Churchill, a cui non  “comodava” che Tito mantenesse questa posizione strategica.
 

 
Carri armati iugoslavi nelle vie di Trieste



(D) Quindi i titini si sono ritirati in accordo con gli alleati...
 

(A) Se ne sono andati per accordi politici “fra alleati”, perché anche loro erano alleati. Comunque sì, non c'è stata un' azioni bellica.
Quella sera, quando è calato il sole e Trieste era al buio, s’è visto un chiarore bianco venire dal porto. Erano le luci delle navi americane (1).
 

(D) La “serata bianca”, quindi, dopo quella “rossa” dei fuochi titini …
 

(A) Sì, ho questo ricordo visivo. Noi abitavamo in piazzale Valmaura,  dove allora c’era (e c'è ancora) lo stadio. Per arrivare al porto bisognava superare un paio di colline. A ogni finestra c'era gente che gridava “Viva i liberatori!!Viva i liberatori!!” tanta era la gioia perché quelli se ne fossero andati. Era stata proprio una cattiva esperienza.

VIA DA TRIESTE, CON LA MAMMA, IN CERCA DI UNA NUOVA VITA

(D) A questo punto però voi, lei e sua mamma, siete partiti. Perché?
 

(A) La mamma voleva partire per vedere se c’era la possibilità di iniziare qualche tipo di attività, qualche commercio. Era molto attratta dalla città di Milano, dove però non siamo arrivati direttamente. Siamo prima andati fino in fondo all’Italia, a Barletta. Lei pensava che il business dell’olio d’oliva potesse offrire delle opportunità. Pensava di farlo arrivare a Trieste e lì rivenderlo per mezzo dei fratelli.
 

(D) Uno spirito di iniziativa e imprenditoriale notevole, perché in quei momenti, per una donna con un bambino muoversi così autonomamente non doveva certo essere facile.
A Trieste non siete più tornati ad abitare, ma, alla partenza, questa possibilità era contemplata?

(A) No, escluderei che mia madre avesse qualunque intenzione di ritornare a Trieste. Aveva paura della situazione di provvisorietà in cui si trovava la nostra città.


(D) Come si chiamava sua mamma?
 

(A) Si chiamava Vida. E di cognome Franco, italianizzato da Francovich. I nomi in “ic” si usa scriverli con “ch” finale.
 

(D) Lei invece di cognome è Villani ...
 

(A) Sì, Villani. Mio padre era toscano.
 

La famiglia Villani: Gianni, a sinistra, con il padre, la sorella e la seconda moglie del padre.


(D) Invece sua madre era slovena?
 

(A) No, mia madre, come tutta la sua famiglia, era di Trieste. Però abitavano nella parte della città verso i paesi di lingua slovena. A casa dei miei nonni materni si parlava sia italiano che sloveno, o meglio, si parlavano due dialetti: il triestino italiano e il triestino sloveno. L'uno o l’altro, a seconda degli argomenti o delle persone che avevano di fronte. 

Il nonno Giuseppe Francovich con la divisa austroungarica

Poi parlavano sloveno se non volevano farsi capire da me, ma io, che ero cresciuto fin dall’età zero con loro, capivo tutto. La nostra regione, quella che poi è stata chiamata la Venezia Giulia (un nome “culturale” inventato dopo la prima guerra mondiale), è un territorio caratterizzato dall’incrocio di popolazioni, soprattutto le tre grandi radici: italiani, slavi e tedeschi. Gli slavi, inoltre, potevano essere sloveni, croati o anche altri slavi più meridionali (ma non tanti). Poi c’erano molti levantini: libanesi, greci, turchi. Ed ebrei, molti ebrei c’erano a Trieste. A metà ottocento è stata la città europea che, in proporzione alla popolazione, ospitava più ebrei : non ricordo più  se questa proporzione fosse il 5 o il 15 %. Era una zona cosmopolita, fatta di ideali transnazionali di ricerca di pace.
E allora tante volte quando mi chiedono ma voi cosa siete sloveni? slavi? italiani? Siamo tutto …


Giuseppe Francovich con la moglie Maria, nonni materni di Anerio
(D) Siete triestini insomma … Però il sogno di sua mamma di aprire una propria attività non si è avverato. Perché?
 

(A) Perché le hanno rubato la borsetta con i soldi, tutto quello che avevamo: siamo rimasti a terra. Allora tutti ci dicevano “ma voi siete di quelle parti, perché non vi unite a questi?” , intendendo i profughi istriani. Allora ci siamo aggregati ai profughi e siamo sempre vissuti con loro. Io e mia moglie ci siamo conosciuti nel campo profughi di Monza, che era in villa Reale.

LA FAMIGLIA UICICH E LA DIFFICILE SCELTA DI LASCIARE FIUME

Giuseppina Gigliola (G) Io e la mia famiglia siamo partiti nel 1951. Prima siamo stati a Trieste, poi a Udine; da Udine ci hanno trasferito a L’Aquila e da qui a Monza, alla villa Reale.
 

(D) Precisamente da quale città siete venuti via?
 

(G) Abitavamo a Fiume, anche se io sono nata in una cittadina a una decina di chilometri di distanza, Matuglie, dove il papà lavorava. Siamo stati a Mattuglie anche durante la guerra, sfollati. Dopo la guerra però siamo tornati a Fiume.
 

(D) Siete partiti nel 1951, quindi non subito dopo la guerra. Come mai?
 

(G) Quando c'era stata la possibilità di scegliere se restare lì o andare in Italia, papà non aveva voluto andar via, perché era troppo legato alla sua città, a Fiume (2).
 

 
FIUME, Corso Vittorio Emanuele II

(D) Dopo però ci ha ripensato ...
 

(G) I titini – che noi chiamavamo i “drusi” - organizzavano spesso manifestazioni, ad esempio quando veniva Tito a Fiume. Per parteciparvi arrivava gente da tutti i paesi. Mio papà faceva il camionista e trasportava le persone alle manifestazioni. Una volta ha avuto un incidente. Qualcuno, che non gli voleva bene, ha detto che aveva fatto apposta, perché era contrario a Tito. E’ stato processato e condannato. Anzi, quando è arrivato al processo era già stato condannato. Nove mesi di carcere duro. Tornato a casa, ha detto basta, non ha più voluto stare in città e siamo partiti.
 

(D) Come si chiamava suo papà?
 

(G) Giuseppe, Giuseppe  Uicich. Lui era rimasto deluso perché Fiume era la sua città, dove era nato, non sarebbe mai andato via. Tutti i suoi parenti erano già partiti. Quando c’era stata la possibilità di scegliere,  chi si considerava italiano in genere andava via. Lui no.
Papà guidava le autocisterne della Esso. Finita la guerra la ditta gli aveva offerto di fare lo stesso lavoro in Italia, ma lui aveva rinunciato. Si era licenziato, aveva preso la liquidazione, ed era andato avanti a fare il suo mestiere …
 

(D) Per conto proprio?
 

(G) No, lavorava per qualche ditta, non so quale…
 

(A) Guidava le autocisterne per il trasporto di petrolio. Mi ricordo che una delle ditte per cui trasportava era la Lampo.
 

(G) Sì, è vero, infatti era soprannominato “Lampo”: Giuseppe, detto Pepi, detto Pepi Lampo.

Giuseppe Uicich alla guida di un camion della "Standard Oil", l'azienda che poi diventerà la Esso
(D) La sua famiglia come era composta?
 

(G) Papà, mamma e tre sorelle. Mia mamma si chiamava Maria Cressevich. Era nata a Racize, un paesino sloveno a metà strada fra Trieste e Fiume. Dopo Racize c'è Starad, il paese di origine dei genitori di mio papà, sempre in Slovenia.
 

(A) La lingua materna di mia suocera infatti era  lo sloveno.
 

(G) Sì mia mamma parlava lo sloveno. Poi, trasferendosi a Fiume da ragazza, ha imparato il dialetto italiano di Fiume e parlava questa lingua quando io e mia sorella siamo nate. Venuta in Italia,  ha imparato l’italiano, soprattutto grazie alla televisione. Mio papà invece non ha mai voluto parlare né sloveno né croato: soltanto italiano. Lui disprezzava anche il fatto che mia mamma fosse di Racize, ma anche la sua di mamma era slovena. Però lui era fiumano.
 

(D) Cosa ricorda della sua infanzia a Fiume?
 

(G) Ricordo che per alcuni anni avevamo frequentato la scuola italiana. Dopo, però, le avevano chiuse. Anche perché eravamo rimasti in pochi. Tantissime famiglie erano già andate via.
Mi ricordo che con la scuola, quando arrivava Tito, si facevano i cori , i cori dei bambini. Poi andavamo a fare la “ricostruzione”. Per noi bambini era divertente.
 

Maria Cressevich con le tre figlie. Gigliola è la prima a destra
(A) Un po’ come in Italia sotto il fascismo, quando c’erano i balilla: noi facevamo il sabato dentro gli stadi o nelle piazze e con Tito era lo stesso: è la natura dei regimi autoritari.
 

(G) Ma quante cose brutte abbiamo anche visto durante la guerra, anche se eravamo bambine piccole.
Mi ricordo quando c’erano i bombardamenti, mamma mia, che roba. Scappavamo nei rifugi.
Poi, quando c'è stata la ritirata dei tedeschi, tanti erano stati fatti prigionieri. Noi bambini li vedevano dalla finestra che dava sul cortile e allora erano loro che ci facevano pena, anche se prima, quando erano gli occupanti, ci avevano fatto tanta paura. Pensi che una volta erano venuti in casa a cercare il papà. Lui non si era arruolato, perché era un tipo un po’ anarchico, non voleva. Era scappato sul tetto e noi bambine eravamo rimaste lì con la mamma. Sono arrivati i tedeschi e ci volevano fucilare. Allora il papà è tornato, l’hanno portato via e ha dovuto lavorare per loro.
 

(D) Però, da prigionieri vi facevano pena, come mai?
 

(G) Erano lì seduti, avevano sete, erano affamati e li trattavano male. Anche alla gente facevano pena e volevano portargli un po’ d’acqua, un po’ di cose, ma non ti lasciavano.
Una volta ho visto che uno voleva saltar su un camion e l'hanno fucilato, mamma mia, in strada.
Invece, finita la guerra, ricordo che portavano via quelli che erano stati fascisti, anche quelli che non avevano mai fatto niente di male. Ricordo di un nostro vicino di casa una, brava persona: l’hanno portato via e non si è più saputo niente. Tante persone che i miei genitori conoscevano, mi hanno raccontato, le hanno portate via. Ma brave persone, che erano state fasciste, sì, ma erano anche brava gente, non erano di quelli che …. E dopo si parlava, la gente raccontava: “quello lì non è più tornato”.
 

(D) Quando avete saputo delle foibe?
 

(G) A Fiume  non ne avevamo mai sentito parlare. L'abbiamo saputo quando siamo arrivati a Trieste.
 

(A) A Trieste delle foibe s’era saputo già durante l’occupazione titina. Mi ricordo mia zia Egidia arrivare a casa piangente e dire  “Li legano! Li legano! con il filo spinato e li buttano giù“ .
 

(D) Quindi a Fiume sapevate che un certo numero di persone italiane erano state portate via e non erano più tornate. Ma solo quelli che erano in qualche modo stati fascisti o anche altri solo perché italiani?
 

(G) No, solo quelli che erano stati fascisti, gli altri no. Che avevano collaborato con i tedeschi, altrimenti no.
 

(D) Quindi le famiglie italiane di Fiume che erano partite lo avevano fatto perché non gli andava bene il regime che si stava instaurando?
 

(G) Sì, è così.
 

(D) Sono partite alla spicciolata o in modo massiccio, organizzato?
 

(G) Andavano via da sole o a gruppi . Quando decidevano, vendevano tutto e partivano.
 

(A) Non c’è stato un esodo organizzato come da Pola, con la nave Toscana, nel ’47, no, no. Poi dipendeva anche da quando arrivavano i titini. Quando io e mia mamma siamo arrivati a Milano in campo profughi, nell’autunno del 1945, abbiamo trovato gli zaratini, che erano già lì da un paio d’anni, dal 1943, perché la loro città era stata occupata prima.
 

(D) Prima della guerra, com'era composta la popolazione di Fiume: qual era la proporzione fra italiani e sloveni?
 

(G) Difficile da dire , non lo so …
 

(D) I rapporti fra le diverse comunità erano buoni? Come a Trieste?
 

(G) Sì, normali.
 

(A) Finché non hanno preso troppo piede i nazionalismi, il prodotto del movimento romantico degli inizi dell’ottocento, che, in quel secolo, aveva dato l'avvio alle rivoluzioni nazionali in tutta d’Europa, compresa l'Italia.
Questo senso della nazione, quando degenera, fa si che le nazioni degli altri non siano più considerate entità uguali alla propria, con le quali si può parlare, convivere: diventano il nemico. Ciò ha portato, purtroppo, a due guerre mondiali catastrofiche.
 

(D) Ed è anche quello che è successo in Jugoslavia negli anni novanta.
 

(A) Eh sì, anche in quel caso la causa sono stati i nazionalismi interni che non si sono più sopportati tra di loro.
 

(D) Mentre a Fiume, avete detto, prima della guerra le due comunità convivevano tranquillamente.
 

(G) Sì,sì.
 

(D) C’erano amicizie e anche matrimoni misti?
 

(G) Certo, anche mia mamma era slovena.
 

(D) Lei parla lo sloveno?
 

(G) No, anche se qualcosa a scuola avevamo studiato, come lingua straniera. Ora ricordo solo qualche parola. Però quando vivevamo a Matuglie, sfollati, con gli altri bambini parlavamo croato, tant'è che, tornati a Fiume, non sapevamo più parlare il fiumano.

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sabato 4 marzo 2017

IN MISSIONE A TRIESTE di Francesco Gnecchi Ruscone

L'architetto Francesco Gnecchi Ruscone, nel periodo dell'occupazione tedesca dell'Italia settentrionale e della Repubblica Sociale Italiana, ha partecipato alla Resistenza come componente di "Nemo", missione appoggiata dai Servizi Segreti Inglesi, inquadrata nell'Esercito Regio e guidata da Emilio Elia (“Nemo”), capitano di corvetta della Regia Marina.

Nella missione Gnecchi ha avuto il compito di fare i rilievi delle fortificazioni tedesche in Veneto. Arrestato il 12 gennaio 1945, picchiato, torturato e infine condannato a morte per impiccagione, rimane in carcere fino alla fine di marzo. Nei giorni dell'insurrezione, partecipa alla liberazione di Milano.

Finita la guerra, con la resa tedesca in Italia, riceve l'incarico di entrare a Trieste con le truppe alleate, per inviare informazioni sulla situazione della città e, sopratutto, sulla sorte toccata a due membri della missione, Guido Tassan e Vittorio Strukel “Toio”: triestini, tornati alla loro città dopo la Liberazione, erano stati arrestati dai titini ed erano spariti.

Nel libro di Gnecchi, MISSIONE “NEMO”. Un'operazione segreta della Resistenza militare italiana 1944-1945, questo episodio è narrato da pagina 113 a pagina 116. Con il suo permesso, ve lo presento. M.B.


Francesco Gnecchi Ruscone, MISSIONE “NEMO”. Un'operazione segreta della Resistenza militare italiana 1944-1945, da pagina 113 a pagina 116.



Tornato alla sede della missione “Nemo”, il capitano De Haag mi ha informato che ero diventato un sottotenente provvisorio e mi ha consegnato dei capi di vestiario khaki, provenienti dai fondi di magazzino di chissà quanti e quali eserciti, con cui crearmi un'uniforme. Particolare sgradito un paio di pantaloni a sbuffo che sospettavo avessero appartenuto all' “Afrika Korps” di Rommel.

Abituato a non far domande sugli ordini ricevuti, mi sono rivestito e ho cominciato ad agire da sottotenente provvisorio. Ne ricevevo anche lo stipendio. Non ho mai sospettato fosse solo un travestimento nell'ambito delle attività della missione finché, dopo la guerra non ho scoperto che di questa mia promozione e carriera non c'è alcuna traccia nei miei documenti militari.

I miei ordini erano di andare a Monfalcone e aggregarmi, come ufficiale di collegamento, a un battaglione neozelandese che doveva entrare a Trieste. Ci sarei entrato con loro; come militare italiano non mi era permesso.

Guido Tassan e “Toio” Strukel, i miei due compagni della maglia di Vicenza della missione, che erano tornati alle loro case di Trieste dopo la resa tedesca, erano stati arrestati dalla polizia di Tito ed erano spariti.

Questo era grave ed allarmante: gli jugoslavi avevano dichiarato apertamente l'intenzione di annettersi tutte le province della Venezia Giulia fino all'Isonzo e anche oltre, e avevano iniziato in tutti i territori dove erano riusciti ad arrivare prima dell'8ª armata una durissima campagna di maltrattamenti e intimidazioni sulla popolazione italiana.

Adesso si chiama “pulizia etnica” ma anche allora era una vicenda sordida e sanguinosa.

Uccisioni e sparizioni degli italiani più in vista erano frequentissime ed erano giustificate agli Alleati come esecuzioni di fascisti o rappresaglie spontanee incontrollabili, vendette per l'occupazione italiana della Jugoslavia dal 1941 al 1943.

Naturalmente queste spiegazioni non potevano valere per Guido e “Toio”. Il loro inoppugnabile passato li rendeva la negazione di quelle teorie e quindi testimoni da eliminare.

Io dovevo scoprire non solo cosa era a loro accaduto e se possibile far qualcosa per loro, ma anche monitorare la sitiazione generale a Trieste e farne rapporto con regolari viaggi a Milano. Questa volta non potevamo usare operatori radio.

Dopo qualche giorno di incertezza a Monfalcone, il battaglione ha avuto l'ordine di entrate a Trieste, da dove gli iugoslavi avevano accettato di ritirare almeno i loro reparti regolari.

Non volevo entrare a Trieste vestito da Alleato purchessia, così a Monfalcone ho requisito un cappello da alpino, completo di penna d'aquila, al quale non avevo alcun diritto, non avendo mai servito in quel corpo. Mi pareva doveroso mostrare ai triestini che ero italiano.

Mi ha comunque reso molto popolare.

[ …]

A Trieste i miei compiti erano uno più frustrante dell'altro. Di Guido Tassan e “Toio” Strukel siamo solo riusciti a sapere che erano ancora vivi, ma deportati in campi di concentramento in Croazia interna ove le condizioni rivaleggiavano con quelle dei Lager tedeschi. Ci sono rimasti per due anni dopo la fine della guerra. Guido, più forte, ha potuto riprendere una vita normale, “Toio” è sopravvissuto pochi anni dentro e fuori da ospedali.


Uno scorcio di Trieste in una cartolina


Il quadro politico generale diventava comunque prevalente sulla situazione locale: stava prendendo corpo, proprio lì a Trieste, la “Cortina di Ferro”. Il mio compito ormai consisteva nel distribuire messaggi chiusi a sconosciuti, organizzare riunioni a cui non avrei partecipato e portare a Milano notizie che erano sempre più di dominio pubblico.

Ora la mia vita era certo più comoda e meno rischiosa del periodo delle mie pedalate invernali e dei miei rilevamenti di trincee tedesche , ma mi trovavo spesso a rimpiangere la chiarezza di intenti e di relazione tra le mie azioni e i loro effetti e l'unione con i compagni di lotta di quei mesi passati.

La gerra era finita, era diventata politica. Non era più per me.

[ … ]

In quei giorni anche la mia missione a Trieste si è conclusa e mi sono trovato a dover pensare a cosa fare dopo. Da un lato mi sembrava di essere troppo vecchio per tornare sui banchi di una scuola, sia pure del Politecnico, dall'altro era evidente che la mia vita degli ultimi due anni era un capitolo chiuso.

Per fortuna la saggezza ha prevalso e sono tornato al Politecnico.

 ***


Quando mi sono rivolto all'architetto Francesco Gnecchi Ruscone, per chiedergli il permesso di pubblicare questa pagina del suo libro su Nemo, spiegandogli che l'aggiornamento del blog in programma sarebbe stato in gran parte dedicato al tema dei profughi giuliani, mi ha segnalato un brano di un altro suo libro, Storie di Architettura, in cui si parla di questo argomento.
Egli infatti, aveva collaborato negli anni cinquanta del novecento con l'ente UNRRA CASAS, diretta da Adriano Olivetti, che si era occupato, nel nord ovest della Sardegna,  del recupero del borgo Fertilia per l'accoglienza dei profughi dall'Istria e dalla Dalmazia.





Francesco Gnecchi Ruscone, STORIE DI ARCHITETTURA, Conversazione con Adine Gavazzi, pagine 236 e 237

Un problema particolare era costituito dal borgo di Fertilia: iniziato negli anni '30 come parte di una velleitaria, mai realmente avviata, bonifica della Nurra, era stata trasformata durante la guerra in caserme e depositi per l'Aeronautica, che, dove ora sorge l'aeroporto di Alghero, aveva la sua base per quella che avrebbe dovuto essere la difesa dell'Alto Tirreno. Abbandonato e vandalizzato dopo l'armistizio, il borgo era ridotto a poco più che rovine. La proposta di restaurarlo e completarlo per destinarlo ai profughi dell'Istria e della Dalmazia, che alla cessione di quelle terre alla Jugoslavia avevano dovuto emigrare, aveva trovato il pronto consenso del governo e i necessari finanziamenti. Molti di loro erano pescatori o comunque gente di mare e il progetto comprendeva anche aiuti alle cooperative per l'acquisto della barche e di quanto era necessario a un nuovo avvio.
Così il fortunato incontro del patriottismo che abbiamo trovato tra i sardi, espresso come “spirito di servizio”, con la determinazione, iniziativa e laboriosità dei giuliani, ha prodotto quello che è risultato l'intervento di maggior successo dell'UNRRA CASAS olivettiana.
Qualche anno fa, capitato a Fertilia come turista, ho potuto constatare che la lingua ufficiale locale era ancora il triestino. Carpinteri e Faraguna (1) avrebbero potuto ambientare lì qualcuno dei loro bellissimi racconti.
 

NOTA
(1)  "Carpinteri & Faraguna sono una coppia di giornalisti, scrittori e commediografi dialettali italiani di origine triestina Lino Carpinteri (Trieste 1924 - Trieste 2013) e Mariano Faraguna (Trieste 1924 - Trieste 2001).
La maggior parte delle loro opere è ambientata in una regione, più ideale che reale, incontro delle culture mitteleuropee ed adriatiche che va da Trieste all'alta Dalmazia (comprendendo Istria e Quarnero). L'epoca storica è spesso quella della dominazione austro-ungarica (vista come epoca "felix") vissuta da personaggi con forte connotazione locale e popolare. La lingua utilizzata è il cosiddetto istro-veneto: più che un dialetto, una "lingua franca" su base veneta con numerosissime influenze slave e tedesche, ma perfino turche ed arabe (e latine, come del resto il dialetto triestino appartenente alla lingua veneta)".
https://it.wikipedia.org/wiki/Carpinteri_%26_Faraguna



venerdì 3 marzo 2017

SIGNORE E SIGNORI ... IL CIRCO! di Marco Bartesaghi





Nel dicembre del 2011 si è fermato per alcuni giorni a Verderio il Circo Grioni.

Ho assistito a un suo spettacolo, scattando una serie di fotografie che vi presento























 
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